Assoedilizia: relazione del presidente Colombo Clerici al convegno al Politecnico di Milano

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Un breve excursus sul concetto di città ci permette di meglio comprendere questa realtà, e quali debbano essere i suoi caratteri e le sue funzioni . E conseguentemente di fare qualche riflessione sul concetto di qualità della vita nella città. Forse nessuna nozione al mondo (tranne quella riguardante l’essere umano) ha avuto tante definizioni. Ciascuno ne ha delineato una a seconda della sua concezione culturale. Vediamo alcune di quelle nelle quali mi sono imbattuto nel mio lungo discutere e sentir discutere di città. La città politica- Nel I° secolo a.Ch. lo storico greco Strabone definiva la città lo strumento per governare il maggior numero di uomini con il minor numero di uomini. Duemila anni dopo, ancora dominava una concezione politica che vedeva nella fabbrica, all’interno delle città, il luogo ideale per il miglior controllo delle masse: nel nostro Paese questa visione ha prodotto, nel secondo dopoguerra del secolo scorso, una violenta accelerazione dell’urbanesimo (l’esodo dalle campagne alla città) e rilevanti processi di migrazione di massa dal Sud al Nord. A Milano, chi non ricorda, negli ultimi anni ’70 le pesanti operazioni urbanistiche in alcuni quartieri popolari, (ad esempio il quartiere Garibaldi) per il mantenimento dell’elettorato esistente.

– Concezione della città Immaginifica – Molte città recano l’impronta dei governanti che vi trasfondevano il carattere dei regimi politici o ideal-istituzionali, di cui volevano l’affermazione e la celebrazione: abbiamo tutti presenti la magnificenza, la maestosità delle città regali, o l’architettura oscuramente gotica e opprimente di Albert Speer ai tempi di Hitler, o quella massiccia, squadrata e pervasiva di Piacentini nel periodo fascista. Pensiamo anche alle valenze simboliche dei grattacieli americani o dei blocchi sovietici. Giulio II, nella Roma del Cinquecento, andò alla ricerca della monumentalità e della pompa, non fini a se stesse, ma tese ad maiorem Dei gloriam. Una Roma quella di Giulio II, per nulla pianificata; con palazzi monumentali e templi sorgenti in mezzo a radure ed orti. Ottant’anni dopo arriverà Felice Peretti, papa Sisto V, che affiderà all’architetto lombardo/svizzero (Melide – Lugano 1543) Domenico Fontana il compito di redigere un vero e proprio piano regolatore della città, con strade, piazze, fognature, rete idrica: la Roma felix, per il nome e per l’intento del papa.
– La città etica – sullo sfondo aleggiava la concezione del teologo; così bene espressa, dal gesuita Giovanni Botero (nel suo trattato “Cause della grandezza e magnificenza della città” 1589, in piena Controriforma) che considerava la città una radunanza di uomini, riuniti per vivere felicemente. I Gesuiti, peraltro, (Acta della Congregazione Generale della Compagnia 1558) furono antesignani nel prefigurare un modello di convivenza ordinata secondo uno schema razionale improntato alla massima funzionalità della struttura edilizia in rapporto alle esigenze abitative di una comunità. I moduli, infatti, delle case religiose e dei collegi gesuitici costituirono la base per l’impostazione della più moderna cultura della ospitalità, per ciò che riguarda, tanto le strutture edilizie, quanto le regole delle ricettività; e favorirono il passaggio dalla cultura ospitaliera, prima medioevale dei monasteri e dei conventi, poi rinascimentale delle corti, a quella romantica degli alberghi.
– La funzionalità – Venendo a visioni più funzionali passiamo dalla concezione del progettista Le Corbusier (che parlava di macchina; per vivere potremmo parafrasare) a quella dell’amministratore pubblico dei nostri giorni (Chiamparino, sindaco di Torino), che definisce la città come il luogo delle contraddizioni. Una visione che si riconduce alla concezione dell’architetto umanista. Filarete parlava della città ideale, come del luogo in cui si riuniscono e si concentrano il massimo dei vizi ed il massimo della virtù (dal lupanare all’osservatorio astronomico, come dire dalle stalle alle stelle). Una realtà variegata e contradditoria, ardua da comporre e da governare. Significativa anche la definizione dell’esteta John Ruskin che parla di luogo della accumulazione; in un certo senso evocando il dualismo tra natura allo stato brado e natura costruita, manipolata dall’uomo; nella quale, a seguito dell’azione umana, il paesaggio si fa gradatamente paese e questo, a sua volta, diviene città. Il processo è proprio quello della accumulazione, non solo delle risorse, ma soprattutto delle attività, delle funzioni.
Un passo avanti ed incontriamo la descrizione che ci fa il business-guru Jonas Riddersträle (meeting Ambrosetti Cernobbio 2007) che collega la città all’idea di sogno: la città capace di fare immagine, come fonte di richiamo, dotata di un forte appeal basato sulla competitività (intesa come capacità, non tanto di essere migliori, quanto di essere diversi).

Qui si innesta chiaramente, a mio giudizio, il discorso della qualità della vita. Perchè la vivibilità non può che esser fatta di efficienza, di funzionalità, di equilibrio (socio-economico e territoriale-strutturale). La competitività è anche qualità dell’offerta di beni e servizi. E dunque anche organizzazione dei servizi stessi rivolti alle persone ed alle imprese (opportunità di lavoro, di studio, di cultura, di socializzazione).
– La concezione sociologica – Possiamo, a questo punto, tentare un approccio sociologico alla nozione di città: essa è incontro di comunità, di ambiente e di cultura: comunità che implica i concetti di sussidiarietà, di solidarietà, di sicurezza; ambiente, che contiene l’aspetto dell’ecologia, della salute, dell’equilibrio socio-territoriale e struttural-territoriale; cultura, che richiama l’appeal, le opportunità in termini di conoscenza, di lavoro, di socializzazione. Dall’insieme di queste componenti scaturiscono la qualità dell’offerta di vita e la competitività complessiva della città e del territorio. Oggi, il nostro mondo si proietta nel mondo globalizzato. La globalizzazione (giova sottolinearlo) è fenomeno complesso, non solo economico e finanziario, ma etnico, sociale e culturale.
– La competitività e la cultura sul territorio – Se la città deve essere competitiva, la sua offerta complessiva non può prescindere dunque dall’immagine culturale: che deve ancorarsi al territorio, attraverso quello che Massimo Cacciari definisce il radicamento terraneo, per poter in qualche modo contrastare l’effetto dei processi socio/economici deterritorializzanti, che oggi attraversano il nostro mondo. In campo socio-economico il processo di ristrutturazione, di innovazione tecnologica, di terziarizzazione, di finanziarizzazione, di internazionalizzazione. In campo territoriale la deindustrializzazione e la delocalizzazione.

Il radicamento della cultura al territorio si realizza quando si percepisce la sensazione di trovarsi al centro dell’essere. Se essere è conoscere, al centro della conoscenza. Se è sentire, al centro dell’emozione. Se è apparire, al centro della visibilità. La periferia culturale è sinonimo, oltre che di marginalità, di decadenza”. Quando dico che, affinchè l’EXPO 2015 produca i suoi frutti, nel tempo, in altri termini accenda un motore che rimanga in moto anche dopo che l’Esposizione avrà chiuso i battenti (evitando che quell’evento lasci dietro di sè cattedrali nel deserto, come Siviglia ’92) è necessario radicare al territorio una forte immagine culturale, intendo dire che non è solo questione di landmark (legato al passato o al futuro che sia, o alla finalità ecologica che Milano si è proposta). E’ operazione complessa che passa attraverso, non solo i cantieri e le opere sul territorio o le iniziative più o meno durature, ma anche attraverso un impegno ed una partecipazione civile e culturale di tutta la nazione italiana. Un impegno volto a potenziare il territorio come fattore rigeneratore della complessiva competitività della conurbazione urbana. Secondo l’insegnamento di Carlo Cattaneo il quale sosteneva paradossalmente che spesse volte il territorio rigenera la città distrutta.

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