Fine della concertazione, vince il buonsenso e cadono le corporazioni

Non ho mai capito perché la Confindustria (ma il discorso vale anche per i sindacati) pretendesse di dire la sua quando il Governo metteva mano, chessò?, alla riforma della scuola

Che c’entra (o, meglio, che c’entrava) un’organizzazione imprenditoriale con la scuola, se non quanto ogni singolo, attento cittadino (o quanto ogni altra organizzazione)? Ma quel che non ho mai capito, l’ho capito adesso, ragionando su un articolo di Antonio Martino pubblicato su Libero.

La storia inizia da lontano, dai Governi “tecnici” – che Dio ce ne scampi e liberi – di Ciampi e Amato (i Ministeri che più di ogni altro hanno dato man forte al debito pubblico, con aggiunta – per il dottor Sottile, quello che da ultimo ha proposto la patrimoniale – della rapina notturna dei conti correnti bancari, della conferma degli estimi a valore e della istituzione di una patrimoniale ordinaria come l’Ici, solo parzialmente abolita da Berlusconi).

Ora, sta prevalendo – come ha spiegato Martino – il semplice buonsenso: Marchionne, buttando via il contratto di lavoro nazionale (ispirandosi al modello di relazioni industriali della Germania, dove i contratti aziendali – come pure ha rilevato Martino – sono la norma), ha fatto piazza pulita della concertazione. Ma ai tempi di Ciampi e Amato, si partiva dalla radicata convinzione che l’inflazione fosse figlia dei costi, e in particolare della crescita dei salari (considerati – ricordate? – una “variabile indipendente”).

E per imporre la “politica dei redditi” di derivazione keynesiana (meglio: per importarla dall’Inghilterra, perché non ebbero neppure il merito di inventarla loro) si mandò in scena la concertazione: una specie di Direttorio (nel quale la Confindustria e la Triplice dettavano il passo e tutti gli altri “convitati” a Palazzo Chigi facevano da comparse) che si attribuì da solo il ruolo di “salvapatria”, nella connivenza dei Governi del tempo.

Ovvia la conseguenza che, se salvava la patria, il Direttorio doveva poter mettere becco – come fu, e senza che i Governi di cui s’è detto se ne vergognassero – in ogni decisione, anche in quelle non concernenti i salari e neppure la sola politica economica in genere, ma concernenti invero anche la politica scolastica, appunto.

La “politica dei redditi” (con sua figlia, la concertazione) finì presto in Inghilterra – da dove, come detto, l’avevano pedestremente importata – perché la spazzò via la Thatcher. Ma da noi, è durata a lungo. Soprattutto perché andava a fagiolo con la bardatura neocorporativa che caratterizza il nostro Paese (e che è paradossalmente tenuta in piedi, più che da ogni altro, da chi – ad ogni 25 aprile – va rumorosamente in piazza a celebrare la caduta del fascismo, del regime – cioè – che, compiacendo la Chiesa, introdusse da noi il corporativismo).

La rivoluzione di Marchionne punta all’efficienza aziendale e alla competitività internazionale. Ha posto fine – grazie ad un Governo che ha fatto il suo dovere, ha lasciato fare – alla “dittatura del desiderio”, che – come ha detto il ministro Sacconi – “fa confondere questo (il desiderio, cioè) con i diritti”. Soprattutto, la rivoluzione Marchionne ha distrutto – nei fatti, e anche al di là di quello che direttamente voleva il manager della Fiat – la concezione (è un altro importante concetto di Martino) dei sindacati (e della Confindustria, conseguentemente) come superpartiti, autorizzati (e, addirittura, chiamati) ad interloquire – pur al di fuori di ogni rispetto per la Costituzione, che questo non prevede – nelle decisioni di politica economica e non solo, e perfino anche in quelle di politica fiscale. Dove, in particolare, i “superpartiti” hanno sempre tirato la coperta dalla parte loro, come dalla parte loro la tirano ora proponendo – al di fuori di ogni logica di interesse generale – la patrimoniale sugli immobili (di certo) e sulle rendite finanziarie (magari anche).

Ora – con Marchionne – un po’ d’aria nuova s’è liberata, qualche monopolio corporativo comincia – come s’è visto – a cadere. Se i conservatori dello status quo non torneranno ad avere il sopravvento, si può anche cominciare a sperare. Possono cominciare a sperare anche i giovani, il cui precariato non è figlio di una condizione giuridica, ma dell’ingessatura del resto della società imposta dalle corporazioni, che precari i giovani manterranno fin che riusciranno a conservare certe rigidità nel mondo del lavoro che sono proprio quelle che rendono – per differenza – tutto il resto precario. Impediscono infatti che tutto il resto sia invece semplicemente flessibile (se allargato ad ogni tipo di prestazione di ogni settore, del privato e del pubblico) com’è negli Stati Uniti.

La concertazione – teniamolo ben presente – ha allargato, inevitabilmente, la spesa pubblica, soddisfacendo la fame delle corporazioni, ma è la sconfitta di queste che può consentire di “affamare la bestia” dello Stato moderno. E solo l’aria libera (dalle corporazioni) può dimostrare quel che tutti sappiamo, e cioè che non chi predica la solidarietà (con le tasse a carico degli altri) o chi erige barricate (con i mobili altrui), ma solo chi crea ricchezza fa il bene di tutti.

Corrado Sforza Fogliani
presidente Confedilizia

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