Il partito della patrimoniale (per molti, solo un cartello anti Berlusconi) pare essersi rassegnato. Ma non del tutto.
Dagli ambienti confindustriali si suggerisce ora un ripiegamento strategico: facciamo una patrimoniale surrettizia, aumentiamo le “rendite” catastali e il gioco è fatto. I patrimonialisti, nel propalare questa idea, fanno leva su un’opinione che i giornali (anche giornali pretesemente tecnici) sono riusciti a creare: è l’opinione che i valori di mercato siano notevolmente superiori a quelli catastali.

Ora, a parte che non sempre è vero, quand’anche ciò fosse non significherebbe niente: perché le “rendite” (come fa chiaro il loro stesso nome) dovrebbero essere rappresentative dei redditi (non, dei valori). Secondo il nostro sistema fiscale, si paga infatti su quelli, non su questi ultimi (introdotti nel ’90 – come base degli estimi catastali – in modo del tutto precario ed accidentale, nell’incapacità – in allora – di rilevare i redditi sul territorio, come s’era sempre fatto).
Il “reddito medio ordinario ritraibile dagli immobili” che costituisce la tariffa d’estimo, insomma, viene oggi calcolato applicando ai valori immobiliari stabiliti, coefficienti – validi per l’intero territorio nazionale – a suo tempo fissati in modo aprioristico a livello centrale (1 per le abitazioni, 2 per gli uffici, 3 per i negozi). In sostanza, una costruzione totalmente astratta e artificiosa (e quindi, quanto al reale reddito, del tutto inattendibile).
E tale sistema, ormai vigente da vent’anni, è stato solo “provvisoriamente” (essendo allora in vigore una delega per la riforma fiscale e in vista dell’attuazione della stessa) dichiarato legittimo dalla Corte costituzionale, siccome sistema che tassa appunto – sostanzialmente – i valori e non i redditi. Inoltre, non può non sottolinearsi che le aliquote dell’Ici vennero fissate proprio ben sapendo che i valori stabiliti erano quelli del biennio 1988-89 e quindi in relazione al loro ammontare.
Ciò premesso, quanto alla legittimità di un intervento sulle rendite catastali, non si può non evidenziare che un aumento delle stesse comporterebbe una serie di conseguenze di portata ben più ampia rispetto a quella immediatamente percepibile (maggiori entrate, cioè, specie per i Comuni).
Non solo, infatti, tale intervento determinerebbe un diretto aumento della tassazione in capo ad alcune categorie di cittadini (proprietari di “abitazioni principali” di categoria catastale A/1, A/8 e A/9, proprietari di immobili concessi in locazione, proprietari di altri immobili abitativi, proprietari di immobili ad uso non abitativo, locati o meno), ma esso causerebbe in molti casi effetti economici rilevanti anche nei confronti dei cittadini che siano proprietari della sola casa di abitazione.
Infatti, nonostante il reddito della “prima casa” sia esente (tranne che per le unità immobiliari delle categorie catastali A/1, A/8 e A/9), esso confluisce nel reddito complessivo del soggetto, che è il parametro utilizzato – sovente attraverso l’utilizzo degli indicatori Isee e Ise – per l’ottenimento di tutta una serie di agevolazioni e di prestazioni di natura sociale e assistenziale.
A titolo di esempio, si segnalano le seguenti: spettanza assegni familiari; riduzione delle rette degli asili nido; riduzione delle rette delle case di cura per anziani; agevolazioni per utenze gas, telefono, elettricità; esenzione dai ticket sanitari; riduzione delle tasse universitarie.
I dirigenti confindustriali che girano per i palazzi del Potere a diffondere la “buona novella” dell’aumento delle “rendite”, lo sanno questo?
Corrado Sforza Fogliani
presidente Confedilizia

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